Mangia che ti passa!

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Mangia che ti passa!

Mangiamo troppo per rabbia, per solitudine, per noia, per abitudine, per mancanza di affetto, per inerzia. Mangiamo perché ci detestiamo, perché è l’unica maniera per trasgredire. Soprattutto mangiamo per colmare un vuoto esistenziale; perché abbiamo perso il nostro baricentro. Mangiamo anche quando non abbiamo fame e per di più mangiamo in fretta e di corsa; senza coscienza.

Il cibo è l’anestetico più immediato e a portata di mano. Il cibo è il grande rifugio dell’ansia del mondo occidentale.

Il problema del sovrappeso ha radici profonde. Il nutrimento nasconde una serie di significati simbolici che attingono alla sfera affettiva e sacra che danno agli alimenti un valore che va ben al di là del puro aspetto biologico.

Perché introduciamo più calorie di quelle che ci servono? Perché ciò di cui avremmo veramente bisogno sono le calorie “affettive” ma non sempre ne siamo consapevoli. Spesso mangiamo per colmare quel “vuoto esistenziale”. Ricorrere al cibo diventa una modalità per tamponare questo disagio; per anestetizzare la sofferenza, o l’angoscia. Inneschiamo così un circolo vizioso nel quale si mangia, si sta male, ci si sente in colpa, si ingrassa, non ci si piace, si soffre di più…e si ha sempre più bisogno del cibo come “anestetico”.

Qual è il vuoto insaziabile che abbiamo bisogno di colmare? Ci dobbiamo porre questa domanda per scoprire i vissuti emotivi che innescano il nostro comportamento alimentare. Dobbiamo pensare che noi non siamo solo un corpo. Uno squilibrio alimentare rimanda puntualmente a un rapporto di sofferenza sul piano delle emozioni.

Nella cultura consumistica che caratterizza la nostra epoca, siamo costantemente sollecitati da ciò che i mass media, la moda, la pubblicità, decidono per noi. Questo perverso meccanismo ci induce falsi bisogni stimolando una dimensione “orale” collettiva caratterizzata da un vorticoso mutare di valori che ci allontana da esigenze più profonde; ci sazia superficialmente ma accresce il nostro vuoto esistenziale. Il cibo diventa così il sostituto d’elezione dei bisogni insoddisfatti, che rischiano di rimanere tali se non si intraprende un’indispensabile ricerca interiore.

Di diete ce n’è per tutti i gusti ma circa il 90% di queste fallisce. Questo genera una delusione che andrà ad aumentare il senso di fallimento che accompagnerà il tentativo successivo: “Tanto anche questa volta non funzionerà”, “Si provo ma so già che non ce la faccio”, “tanto non dura”…

Quando le motivazioni emotivo/affettive non sono prese in giusta considerazione il risultato raggiunto mostra la sua fragilità e anche quando si è riusciti a dimagrire, si riprende rapidamente il peso perduto.

Il punto chiave da cui partire è immaginare che la dieta non sia un processo quantitativo, il mangiare meno, ma che dentro di noi nasca il più ambizioso degli obiettivi, quello di trasformarci. Il nostro corpo non può essere diverso dal nostro stile di vita; dobbiamo prendere in considerazione e favorire un processo di trasformazione verso una visione olistica dell’uomo, più rispettosa di tutti i piani dell’essere, e non che stiamo solo diventando più magri. Noi non siamo separati da ciò che ci circonda e dalle nostre emozioni, dobbiamo riprendere contatto con la nostra essenza, dobbiamo entrare in risonanza con la nostra energia, con la ciclicità della natura, e con il sacro.

 

 

Liberamente tratto da materiale didattico della Scuola di Naturopatia Riza

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